I N T E R V I S T A


Intervista di James Cook

Abbiamo incontrato Mirco Mariani in una sera d’autunno, all’auditorium di Radio Popolare a Milano, dopo il concerto di presentazione di Dancing Polonia, ultimo album della sua formazione, i Saluti da Saturno. Il clima da subito cordiale, ha pian piano preso direzioni imprevedibili, fino a raggiungere una simpatica deriva alcolica. Questo è più o meno quello che ci siamo detti. Non abbiamo dubbi che, a fine lettura, saremo riusciti a strapparvi più di un sorriso…

Partiamo da lontano: poco dopo il diploma in contrabbasso hai suonato la batteria con Enrico Rava. Com’è stato lavorare a stretto contatto con uno dei più importanti jazzisti italiani?
È una storia strana sai, un destino pazzesco. La sera prima faccio un concerto a Modena, con Piero Odorici. Il giorno dopo ci sono audizioni di Tiziana Ghiglioni, manca il batterista e mi chiamano. Mentre sto accompagnando questi cantanti, con la batteria, caccio una botta al piatto (non due, una!). Sono presenti Rava e Odorici, il primo si gira e dice: questo domani viene via con me. Piero viene da me e ribadisce: Rava dice che domani vai con lui. Ho preso la bicicletta e sono andato da solo per i viali (a Bologna) continuando a girare, perché impazzivo di gioia. Dopo pochi giorni ero insieme a lui in una tournée con nomi incredibili. Per una spiattellata, è andata così…ho fatto diversi anni con uno dei più grandi jazzisti italiani.

Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
La prima sensazione in assoluto che mi ha lasciato è che lui è uno scopritore, va a cercare nel sottobosco, non raccoglie cose a portata di tutti. Ha scovato dei musicisti bravissimi come Stefano Bollani. In quel periodo io ero con Rava, è entrato Bollani e poi con Ares Tavolazzi abbiamo fatto il quartetto. La cosa bella che mi ha lasciato è la capacità di creare i gruppi. La cosa brutta (c’è anche la cosa brutta) è che nel jazz italiano mi sono trovato dentro ma non l’ho ancora capito, come l’ho preso l’ho lasciato. Quando ho visto il jazz degli americani mi sembrava tutto più semplice, più facile, tutto così ordinato anche se disordinato. In Italia vedevo dei gran solisti, tipo Rava, ma a livello di gruppo individuare una formazione italiana di cui ti potessi dire ha il suono del jazz, direi una bugia. Sono un po’ uscito dal genere anche per questo, nonostante la bellissima esperienza.

Suoni numerosi strumenti ma il pianoforte sembra essere una costante non solo del tuo lavoro, anche della tua vita…è vero ?
Il pianoforte l’ho scoperto tardi, ti sembrerà incredibile ma fino a quattro anni fa non ce l’avevo. È pazzesco, come non aver la macchina e voler andare in autostrada, che fai ci vai a piedi? Il pianoforte ti insegna tutto. È veramente qualcosa che se ci cominci a mettere le mani… Io, naturalmente, volevo comprarmelo, ma non me la sentivo di dire a mia moglie che avrei aggiunto un nuovo strumento alla mia collezione, anche se si trattava di un pianoforte. Se invece ora ce l’ho devo dire grazie a mia figlia grande, che adesso ha 10 anni, e a mia moglie, che quattro anni fa ebbe l’idea di farle imparare a suonare proprio questo strumento. Fu solo un breve insegnamento, mollato dopo pochi mesi perché le faceva schifo, ma io, intanto, mi son trovato il pianoforte in casa. A livello di tastiera sapevo fare solo due accordi. Poi, grazie al prezioso aiuto di un mio amico musicista (che sia santo e beato per tutta la vita), ho trovato la strada giusta, mi ha preso una passione incredibile. Pensare che al conservatorio avevo fatto sette anni contrabbasso ed ero uscito senza capire una mazza. Con il pianoforte mi è tornato tutto così logico che adesso, da solo, riesco a fare quel che voglio, anche se certo, diciamo, in una maniera molto casareccia. È uno strumento del quale, passando dalla musica classica, al jazz, al pop, è stato detto in assoluto più di tutto, però credo che qualcosa di nascosto ce l’abbia ancora da rivelare.

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Sei originario dell’appennino tosco-romagnolo. Sembra che tu sia rimasto molto legato a quell’ambiente. Ha influenzato la tua musica?
Guarda, la mia partenza è da lì. Avete ascoltato “Romagna mia”, beh, io ho in mente tutti i luoghi dove si suonava il liscio. I pavimenti un po’ bagnati, una condensa, un vapore, “sudavano” questi posti. Sinceramente non so cosa facessero quelli là mentre ballavano, c’era uno schifo per terra…Ripensandoci adesso, a Cesenatico era come stare in paradiso. Potevi cominciare a suonare ma non c’era limite d’orario per finire. La gente ballava, si divertiva, tu stavi lì, suonavi e così ti divertivi anche te. All’epoca suonavo batteria e basso, sempre in coppia. Avevo una fissa mostruosa per Charlie Haden, però mi rendevo conto che non era possibile trovare una strada che mi permettesse di raggiungere proprio quel suono lì, quel senso del ritmo. Così, il basso lo lasciavo sempre in secondo piano e mi buttavo sulla batteria. Non avendomi insegnato nessuno, facevo schifo, anche se comunque due pacche le cacciavo. Alla fine, te lo dico, ho capito che nel liscio c’era una gran verità, c’era la musica di una regione, la cultura di un popolo. Il jazz invece era di un’altra estrazione. Ho finito per fare questo scambio, non sono tornato al liscio, son tornato all’Italia. Ho iniziato ad ascoltare testi in italiano, mi piaceva leggere delle cose. Sentivo delle frasi di alcuni cantanti, tipo Sergio Endrigo, e rimanevo davvero colpito dal modo semplice di esprimersi. Mi basta una sola frase semplice, messa lì, al posto giusto, per rimanere intontito anche venti minuti. Per me vale molto più di un testo logorroico, sai tipo i rap che dicono duemila parole ma alla fine non capisco niente di quel che vogliono comunicare. In fin dei conti ho fatto un gran giro per tornare alle mie origini romagnole.

Hai parlato spesso della ricerca di sonorità vecchie per farle rivivere ai giorni nostri. Cos’è il Labotron, laboratorio creativo di strumenti dimenticati? 
Prima parlavamo del  pianoforte e di quanto, in proposito, sia stato detto un po’ tutto, anche se ci son dei personaggi che, con il loro talento, riescono ancora a  comunicare qualcosa di nuovo, tenendolo “vivo”. Se  invece parliamo della celesta, cosa conosci? Tchaikovsky…tlin tlin tlin tlin tlin tlin…Conosco negozianti che l’affittano solo per suonare brani di questo musicista.   Oppure viene ricordata solo in occasione del Natale visto che il suo suono serve a riprodurre quei tipici campanellini. Non capisco queste scelte, com’è possibile? Perché nel conservatorio non deve essere prevista un’aula dove c’è una celesta? Si deve far conoscere questo strumento! Capisco che è stata usata poco perché costa tantissimo, ma ha una potenza, crea un mondo!  Di certo non potrò salvare io la vita alla celesta, però ce la metto proprio tutta. Il labotron diciamo che è un amore iniziato ai tempi del liscio. Io suonavo la batteria ed ero incuriosito dagli orchestrali che avevano dei gran cassoni di legno contenenti strumenti tipo farfisa, hammond e vox. Osservavo affascinato quegli “strumentoni” che avevano uno strano odore di fusibili bruciati, ci sentivo una storia dentro, da lì è cominciata la mia passione, che poi si è concretizzata nella realizzazione del labotron. Fondamentalmente si tratta di una collezione di mellotron molto probabilmente unica, anche se qualche altro pazzo come me nel mondo ci sarà. Però, fra i diversi modelli esistenti, diciamo che io possiedo solo quelli che hanno segnato la storia. Nel disco di cover che ho appena registrato, ho suonato brani classici come “Baciami tanto”, “Ciao mare”, usando proprio tutti questi strumenti, come se prendessero il volo. Il labotron è un laboratorio, non una sala di registrazione. Una ragazza in Polonia mi ha regalato un 33 giri – Shaloma locomotiva – e mi ha detto: fidati questo sarà una fonte per te. Shaloma in ebraico vuol dire ciao e che Dio ti benedica. Infatti il mio disco si chiamerà così, è naturale, è già fatta! Vediamo se sarà inciso come Saluti da Saturno o proprio come Shaloma locomotiva

Oltre agli strumenti dimenticati sei anche appassionato di luoghi dimenticati? Penso al tuo disco precedente dedicato a Valdazze, il curioso “villaggio del cantante”, sorto nel 1964 ma, a quanto leggo, località molto decadente e semiabbandonata.
Valdazze è una storia bella e, sinceramente, di una modernità disumana, se penso a qualcuno  che vuole inventare un villaggio con in testa un’idea così. Se fosse stata portata avanti fino in fondo temo che si sarebbero ammazzati tutti, ‘sti cantanti, dovendo vivere lì insieme. L’Italia che diventava il villaggio del cantante per me non esiste. La gente qua si “fa le scarpe” uno con l’altro, appena vedi qualcuno che “davanti” ti fa un sorriso devi tremare, perché appena si gira…C’è tutta una guerra assurda per dividersi un tocco di pane secco. Valdazze è un luogo che mi prende, ho sempre sentito la sua storia, si trova vicino a casa mia e posso dirti che non è poi tanto abbandonato. Mi colpisce l’idea di questo Cav. Giorgetti che ha rovinato la sua vita, ha sacrificato la sua famiglia per creare un posto turistico dove non c’era niente, neanche la strada, solo un terreno fabbricabile. La prima costruzione è stata la chiesa e già merita. Qualsiasi altro avrebbe costruito come minimo un campo sportivo. Partito da una chiesetta bianca, poi ha pensato di costruire le case per i cantanti. Le hanno anche comprate in quattro o cinque, ma poi tutto è finito lì.

Conosci Consonno?
Sì sì, lo conosco perché tutti l’hanno associato a Valdazze. Ho visto le fotografie, c’era il commendatore che voleva fare la città fantastica con le meraviglie. I giornalisti mi hanno mandato tutta la storia, ho visto un luogo un po’ gotico, un po’ Gaudì, degli strani edifici. Ci farò un salto.

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Dancing Polonia è dedicato a Casadei e a Ornette Coleman, ma in questa dedica non c’è solo un accostamento geografico atipico, c’è la sintesi di ballo liscio e jazz. Da dove proviene l’esigenza di accostare un genere popolare da balera a quello afroamericano, di provenienza spiritual e blues?
Il liscio, per me, prima di tutto era divertimento, poi lavoro. Quando sono passato ad  altri generi di musica non mi sono più  sentito  così . Questo  mi ha sconvolto, ho vissuto momenti tremendi. Mi chiedevo: com’è possibile, sono più famoso, frequento persone importanti eppure non mi diverto più allo stesso modo, per me la mia strada è quella. Invece, per quanto riguarda Coleman, intanto c’era Massimo (Simonini) dentro al progetto. Secondo lui la musica più classica è rappresentata da Schönberg, che componeva utilizzando le dodici note, in una sequenza tale per cui nessun suono prevaleva sull’altro. Partendo da questo presupposto, abbiamo cercato un punto d’incontro che si sposasse  con le  mie origini  campagnole ed appenniniche. Se oggi ci penso, Coleman è sinonimo di  libertà totale, la stessa sensazione che provavo quando, a volte, mi capitava di perdermi durante una delle mie passeggiate: per “salvarmi” decidevo che sentiero prendere seguendo il mio istinto e poi andavo, andavo, dovevo credere che ogni strada potesse essere quella giusta! Naturalmente quando ascoltavo Coleman a 16-18 anni dopo un po’ mi dicevo: mamma mia che fatica. Adesso ascoltarlo mi viene naturale, in certi momenti sì, capisci che è un po’ free però, la libertà è la libertà.

Dancing Polonia ha molte sonorità e molte suggestioni che in qualche modo rimandano a Capossela: da parte tua è un omaggio o il riconoscimento di una filiazione artistica che va al di là del fatto di essere stato uno dei suoi più prossimi collaboratori?
Vinicio è un maestro e siamo anche amici, anzi è più amico di mia moglie. Condividiamo la passione per il cinema. Quando ci incontriamo, ci scambiamo subito due titoli, una specie di guerra per vedere chi la sa più  bella. Mi rivedo anni fa, quando andavo su un palco, dopo cinque minuti mi cagavo addosso. Se stavo per un po’ a contatto con il pubblico silenzioso, non sapevo proprio cosa fare, mentre lui è un maestro, ha una bravura a tenere la gente! Non ti nego che, quando viene a San Piero, il mio paese, trascorriamo delle lunghe notti a parlare. L’ ultima volta che è arrivato non è andato in albergo e abbiamo dormito nel letto insieme, roba da ridere. Tante cose ci hanno legato in maniera forte, violenta. Penso agli ascolti della musica di Joao  Gilberto, abbiamo passato notti intere a parlare di lui: perché canta così, perché si muove così… Ora, molto probabilmente, le nostre strade si sono un po’ divise , ce lo siamo detti anche quando ci siamo rivisti di recente. Io parlo di free jazz cantautorale, lui di cose diverse, vuole fare uso di strumenti di altro tipo. In ogni caso considero Vinicio, (insieme a Jimmi Villotti e pochi altri) un bravo maestro e, come tale, mi ha lasciato tanta roba dentro.

In questo disco ci sono diversi ospiti, come ad esempio Arto Lindsay. Come ti è venuta l’idea e come è andata la sua realizzazione?
L’abbiamo già detto prima, è tutto merito di Massimo, io non ci credevo perché Lindsay veramente mi piace da impazzire. Quando ero un ragazzo mi dicevano sempre che sarebbe giusto non conoscere mai il tuo idolo. Il mio batterista preferito era Paul Motian ed effettivamente quando l’ho conosciuto ho sentito tantissimo la differenza tra me e lui, un  senso profondo di distacco. Insomma abbiamo fatto due chiacchiere e poi niente. Arto ha registrato prima le sue parti, a Rio de Janeiro, dove abita. In seguito è venuto a Bologna ed ha voluto conoscermi. Siamo stati due giorni insieme e d è stato pazzesco, ho beccato la data del suo 60esimo compleanno. Ci siam fatti una cenetta in un ristorante con la candelina, io e Arto Lindsay! Quelle cose che ogni tanto capitano nella vita (risata). Però mi ha dato una bastonata perché è stronzo, ti fa capire che lo è. Quando io per scherzo gli ho preso la chitarra e ho detto: “basta ormai ti ho capito, voglio fare il Lindsay italiano, è guerra!” Lui mi ha guardato e ha fatto una gran risata all’americana (per prendere per il culo). Dopo siamo andati in un negozio e mi ha fatto comprare un pedalino. Ha preso la chitarra e ha tirato giù le corde. Ci siamo messi a suonare e ha detto: “adesso suona così, con la chitarra scordata puoi fare l’Arto Lindsay italiano”.

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Ne Le luci della sera, forse il brano più intenso e nostalgico dell’album, ti accompagna Benvegnù. Come è nata questa collaborazione con Paolo?
È stato in  occasione di un concerto all’interno del “Kilowatt Festival”, bellissima manifestazione in provincia di Arezzo. Io suonavo prima di Benvegnù, perché, naturalmente, lui è molto più famoso e bravo del mio gruppo. Abbiamo avuto un forte scambio di opinioni e sensazioni. La fortuna poi è stata che il nostro disco l’ha registrato il fonico che lavora con Paolo, tutto è nato da questa coincidenza. Lui è venuto a cantare un brano con noi ed è stato davvero un bell’incontro. Paolo è un personaggio della madonna – scrivila in grande questa cosa qua – uno dei cantanti che lascerà il segno nella musica italiana cantautorale, è realmente uno che fa paura. Però ritorniamo al solito discorso di prima, discorso vecchissimo che forse è meglio evitare… purtroppo questo non basta, non basta.

In alcuni brani di questo disco ci sono molti riferimenti cinematografici. Ad esempio trovo Venere molto vicina alla sensibilità onirica e surreale di Gondry.
Bellissimo! Fra l’altro l’ultimo suo film non l’ho ancora visto ma mi han detto che è stupendo. Tu l’hai visto? Non mi dire niente, a me ragazzi “L’arte del sogno” mi ha segnato veramente. Venere, a differenza di quello che succede spesso, è una storia accaduta realmente. Di solito, partendo da piccole idee e suggestionato dalla mia grande passione per il cinema, mi piace inventarmele le storie.

Scriveresti una colonna sonora e per chi?
Appena si parla di cinema penso a casa mia, lì non trovi la tv, ma c’è il cinema. Ho un videoproiettore e vecchie sedie di legno recuperate da una sala cinematografica. Non è che posso  accogliere tante persone, ci sono solo quattro posti. Quando chiudo le finestre, faccio buio e parte un film che non ho ancora visto, è veramente un momento importante della giornata. Tutto quello che si riferisce al cinema per me è veramente una roba esagerata. Ho vissuto anche un’esperienza brevissima con Carlo Mazzacurati, un regista che adoro. Difficile dire per chi scriverei una colonna sonora. Cioè il cinema non è come  la musica, il cinema cambia. Ho avuto la fase  Lynch, la fase Herzog. Da un po’ di anni ho una fissa che mi sta uccidendo per Kaurismäki. Lui fa film spettinati, come la mia musica. Non cura l’ordine ma cura tutto il resto. 

Hai appena terminato un minitour che ti ha fatto fare tappa a Berlino, Lipsia e Cracovia. Come sei stato accolto dal pubblico estero e che differenze noti con quello italiano?
Ti dico un’altra cosa, abbiamo fatto tre concerti: Lipsia, Berlino e Cracovia. A Berlino c’erano molti italiani: non ci siamo ragazzi, non ci siamo! Magari ci rimarranno male per questa cosa che dico e che ho capito, forse: noi pensiamo di sapere tutto, di possedere tutto, anche in bolletta ci sentiamo “sboroni“ uguale  ma, forse, non è mica più così. Lo era fino a qualche decina d’anni fa, ora, forse, sarebbe il momento di darsi una rigenerata e reimpostare il tutto. Nel minitour era tutto un altro concerto, ci hanno lasciato fare tutto un altro concerto, un po’ com’è successo anche stasera qui! In Italia si è persa un po’ questa cosa del rilassarsi un attimino, prendersi meno sul serio, mettersi lì seduti tranquilli, senza dover star sempre a discutere su tutto e pensare che tanto son più bravo di te. Rimettersi in una posizione di ascolto e serenità, diciamo che a Lipsia e a Cracovia ho respirato questa fortissima aria. Ho visto mia moglie Anna pogare, lei non è un tipo che poga, mai visto farlo in vita mia. A Cracovia, a un certo punto l’ho notata in mezzo alla sala piena di gente, faceva dei salti!! Sembrava un daino in mezzo a un bosco che salta in mezzo al grano. Ci siamo divertiti un sacco, è una sensazione strana, comunque là ti sentivi qualcuno, sentivi che stavi facendo la cosa giusta. Invece in Italia torni a casa e dici… che poi, tendenzialmente, non voglio fare la vittima, proponiamo un tipo di spettacolo, di concerto, che è nato con lo scopo un po’ di fondere i generi, di divertirsi, però insomma è una battaglia, è una battaglia.

Ascoltando la tua musica si ha la sensazione che ci sia il desiderio da parte tua di trasformare in elemento marginale sia il trascorrere del tempo, che ciò che succede nel reale. Ti sta quindi stretta la quotidianità e l’inevitabile componente di routine che l’accompagna?
Ti rispondo con una frase di Andy Warhol, che spero di non sbagliare: alla gente piace guardar la stessa cosa purché cambino dei particolari. Capisci cosa voglio dire, no? Non ti puoi allontanare troppo e vedere una cosa troppo diversa. Invece io voglio vedere la stessa cosa, che sia proprio la stessa. Quando fai la stessa cosa ti libera la testa. Non è che mi sta stretta la quotidianità, però… Forse sono un po’ ubriaco, scrivilo pure, una volta ogni due o tre anni mi ubriaco anch’io…cazzo. (risata)

“Le piccole cose sono tutto. Le cose grandi non servono a molto: meno ne hai, meglio stai”. Parliamone.
Le cose piccole son leggere, fai meno fatica, le cose grandi pesano  di più…se devi fare molto strada, fai più fatica! (risata)

Grazie a Nadia Merlo Fiorillo per l’ispirazione delle domande e ad Ellebi per la collaborazione alla revisione post alcolica del testo.
Grazie a Pietro Bondi per le fotografie.

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