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Intervista di Sabrina Tolve, fotografie di Elena Schiavoni

È fine luglio, e a Roma non fa caldo. L’aria è fresca e a Villa Ada si sta benissimo: alberi, luce, vento, il laghetto. Fumo una sigaretta in attesa dell’intervista a Pierpaolo Capovilla e mi sudano le mani. Se lui sapesse quante volte mi ha salvata dal botro profondo delle amarezze, probabilmente capirebbe anche il mio lieve balbettare iniziale, quando entriamo in una delle stanzette del backstage e lui arriva lì per me – posso dirlo con una certa soddisfazione – durante una pausa del soundcheck (del concerto ne ho parlato qui). Però mi faccio forza, e lui è così bravo da farmi sentire a mio agio da subito. Perché è vero che in questa situazione dovrei avere io il coltello dalla parte del manico. Ma di fatto, di fronte a Pierpaolo Capovilla, certe convinzioni puramente ruolistiche, crollano irrimediabilmente. Giù giù, nel fondo dei suoi occhi azzurri. E quindi, iniziamo.

Evito domande sul futuro col Teatro degli Orrori e sul perché del titolo Obtorto collo. Ne hai parlato spesso e sei stato più che esaustivo. Vorrei comunque iniziare parlando del tuo album da solista che, si è detto spesso, parla di disgregazione sociale, smarrimento culturale, incomunicabilità. Credi ci sia un modo per ristabilire l’equilibrio perduto, per quel che concerne il nostro Paese?
Certo che ci credo. Se smettessi di credere che si possa fare qualcosa di bello, buono e giusto per il mio Paese, mi sentirei inadeguato e insufficiente nel mio compito non solo di artista, ma di cittadino. Io continuo a crederci. Però credo anche che sia vero che questo Paese sia irriformabile. Noi lottiamo donchisciottescamente contro dei potenti mulini a vento: un ceto politico inadeguato, la criminalità organizzata, soprattutto, l’arrampicamento sociale, il razzismo, il mancato riconoscimento dell’altro. Viviamo in un Paese che sta diventando decisamente più brutto di prima. Però questo non m’induce ad arrendermi, ma proprio per niente, anzi. Divento più cattivo di prima. Non c’è dubbio. Più determinato, certamente. Pasolini ha speso tutta una vita per denunciare lo schifo di questo Paese, augurando all’Italia di sprofondare per liberare il mondo, in una poesia (Alla mia nazione, ndr). Nella sua poesia troviamo un odio profondo per lo Stato italiano dietro il quale, però, si nascondeva – nemmeno così velatamente – un amore pazzesco per la nostra comunità.

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Ritornando all’incomunicabilità, è inevitabile fare una riflessione sull’utilizzo dei social network. Hai lasciato FB nell’aprile del 2012, ad alcuni mesi dopo l’uscita de Il mondo nuovo, del Teatro degli Orrori. I due eventi sono connessi, in un certo qual modo, oppure no?
No, non c’è un nesso. Ho riletto la lettera con cui ho lasciato Facebook qualche giorno fa, e l’ho trovata un po’ naif. È stata una decisione repentina, la mia. Io avevo, personalmente, tre pagine Facebook, e le ho sempre usate in maniera strumentale, con uno scopo squisitamente promozionale del mio lavoro di artista. Però Facebook – ma direi la rete intera – è davvero una rete da pesca e noi siamo i pesci, mh? E non mi bastava. Io ho sempre cercato di parlare ed interloquire con gli altri, tentando di dare anche un’impronta “umanistica” alle mie pagine. Quando, però, mi sono accorto che se postavo la fotografia del mio gatto avevo mille commenti, e se postavo un url sullo Ius soli non c’era nessun commento, mi sono detto che allora non aveva senso: cioè, evidentemente, con i social network ci si lascia volentieri spiare nella propria vita privata; quando si fa, invece, un discorso pubblico, di una certa valenza e che abbia un suo contenuto, non c’è nessun risultato, e non si ha nessuna efficacia. Quindi a quel punto lì ho lasciato perdere. Non ho tempo da perdere con le chiacchiere.
I filosofi la chiamano eterogenesi dei fini. Quando nacquero i social network, a me e a molti miei amici, intellettuali e artisti, sembrò una splendida occasione di condivisione, scambio di idee, di democrazia. Invece è diventata, nel giro di pochissimo tempo, l’esatto contrario. Siamo più soli, individualisti, ed indifferenti agli altri di quanto siamo. E allora aveva ragione McLuhan già negli anni Cinquanta – Sessanta dicendo che il mezzo diventa il messaggio. È quello che è accaduto con i social network e con internet tutto.

In una recente intervista a Vanity fair, hai detto che senza critica non c’è arte. Quanto pensi che un artista possa incidere sulla vita culturale della società in cui vive?
Se l’artista in questione scrive canzoni – e parlo di canzoni popolari, di canzoni d’autore, di musica leggera -, incide. Qualsiasi cosa faccia. Ti parlo soprattutto di questo perché la musica leggera, la canzone popolare è altamente diffusa ed ha una sua incidenza nella vita delle persone, sia che sia una bella canzone, sia che sia una brutta canzone, sia che abbia un contenuto che no.
Io sono per la canzone con un contenuto. Per me una canzone è bella soltanto se ha un contenuto critico ed esclusivamente se ci racconta la società in cui viviamo con le sue contraddizioni. Altrimenti a che serve fare le canzoni? … non capisco. Io mi prendo molto sul serio. La musica è politica, è cultura, innanzitutto. E siccome è cultura, è politica. Io devo assumermi le mie responsabilità, devo comprendere il mio ruolo all’interno della società, devo fare qualcosa. Se fare qualcosa diventa semplicemente arricchire il mio conto in banca, credo che non serva più a niente se non a se stesso. A quel punto lì il gioco non vale più la pena giocarlo. Non serve più. Prima viene la società, poi vengo io, chiaro, no? Per me l’idea è diventare ricco attraverso, però, qualcosa di stupendo. Se mi dovessi abbassare a scrivere canzoni d’amore stupide per le casalinghe o chi vuoi tu – senza nessun’offesa per le casalinghe e le donne. Dicevo casalinghe in senso beniano, alla Carmelo Bene… – io lascerei perdere.
Lo sai che Tom Waits è uno che non vuole che venga associata la sua musica ad alcun evento commerciale? Una volta L’espresso ha pubblicato Rain dogs e se ne accorsero gli avvocati di Tom Waits e invece di fare causa a L’espresso chiesero, anzi, ordinarono di ritirare l’album dalle edicole e pubblicare nel retro di almeno tre quotidiani di diffusione nazionale scuse pubbliche. Bellissimo. E lui dice che se deve associare la sua musica a prodotti che non riguardino la sua arte, allora tanto vale andare a lavorare in banca o in una multinazionale del tabacco. Eh? Tom Waits, bella.

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Hai affermato in varie interviste che quest’album è dedicato agli ultimi. E hai anche ammesso che provieni da una famiglia molto povera. Ti sei sentito “ultimo” anche tu?
Certo che mi sono sentito ultimo: sono stato stigmatizzato, ghettizzato dai miei coetanei. Quando sei bambino, quando sei fanciullo, quando sei adolescente, se vieni emarginato sei dileggiato, in classe, tra le ragazze – figuriamoci! -, e la vita diventa un incubo. I poveri danno fastidio ai ricchi. Io odio i ricchi con tutto il mio cuore. Non disprezzo il denaro, ma odio i ricchi (ridiamo, ndr).
Ma poi pensa, pensa a quante canzoni melense che parlano d’amore. Io no, io nella canzone d’amore parlo della violenza domestica. Trovo molto più interessante il dolore che il piacere, perché dietro al dolore c’è il desiderio del piacere, la voglia di riscatto, di emancipazione. O preferisco parlare di una ragazzina zingara. Trovo che il soggetto sia non soltanto più interessante, ma più stimolante per chi ascolta. Dobbiamo imparare ad amare il nostro prossimo, e il nostro prossimo non è il ricco. È il povero, santocielo. I poveri sono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Il 99%.

Arrivederci è dedicata in qualche modo ad Andrea Zanzotto, che fu poeta e partigiano. C’è, tra le sue poesie, qualcuna cui sei più legato?
Ce ne sono tante. Lo sto studiando e mi piacerebbe proporre un reading di sue poesie in dialetto veneto. Io sono veneto…
C’è una sua opera in particolare che mi piace molto, però, di cui in questo momento non ricordo il titolo, che narra lo sbarco dell’uomo sulla Luna (Gli sguardi i fatti e senhal, ndr).

Com’è nata la voglia di fare reading?
Tutto è nato con Majakovskij del Teatro degli Orrori, che di fatto è All’amato se stesso dedica queste righe l’autore. Abbiamo visto che tanti ragazzi, giovanissimi, ci aspettavano fuori dai camerini per avere un autografo su un libro di Majakovskij: allora ho pensato che si poteva approfondire questo lato della nostra, e della mia vita artistica in particolare, perché quello era un risultato sorprendente. Se io riesco a indurre i più giovani ad appassionarsi ai grandi lirici russi della prima metà del Novecento, allora si può dire che sto facendo cultura. Vuol dire che qualcosa sta succedendo. Quindi i reading sono qualcosa in più: ho iniziato con Majakovskij, ho fatto qualcosa di Esenin – grande contemporaneo di Majakovskij, ma meno conosciuto – per finire con il nostro Pier Paolo Pasolini. Finire… continuando con il nostro Pier Paolo Pasolini. Mi piacerebbe anche fare qualcosa su Artaud, in particolare.
Ne approfitto, sono una rockstar, ai ragazzi piace Capovilla e al concerto sentono Esenin. O La religione del mio tempo di Pasolini. Poi non vengono solo i ragazzini perché, figurati, con queste operazioni artistiche vengono anche gli anziani, vengono gli abbonati ai teatri. E queste persone si ritrovano insieme – vecchie e nuovissime generazioni – ad uno spettacolo che condividono, alla fine. Ad esempio, il concerto di questa sera inizierà con La ballata delle madri di Pasolini. E durante i reading, mentre recitavo questa poesia, ho visto donne, settantenni, piangere, perché è un’accusa terribile contro i genitori che hanno insegnato ai loro figli a stare zitti, a volare basso, a trovarsi un lavoro, a non interessarsi alla politica, come se fossimo tutti circondati da un assurdo assedio, come lo chiamava Pier Paolo ([…] Madri feroci, intente a difendere/ quel poco che, borghesi, possiedono,/ la normalità e lo stipendio,/ quasi con rabbia di chi si vendichi/ o sia stretto da un assurdo assedio. […] – P.P. Pasolini – La ballata delle madri, vv. 41- 45, ndr). E a vederle oggi, queste cose, fanno ancora più impressione che negli anni Cinquanta. Perché sembrano scritte ieri e dedicate a noi.

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Quindi pensi che la musica possa veicolare meglio la poesia, o, a parer tuo, le due arti viaggiano su due binari differenti?
La canzone è la canzone, guarda. Ne parlavo l’altro giorno con Luigi Manconi, senatore PD e presidente della onlus A buon diritto, oltre che grande critico musicale. E lui ci tiene molto a fare questa distinzione: la canzone è canzone, la poesia è poesia. E ha ragione. La poesia è una cosa seria. Perché la poesia è ricerca. La canzone non ha quella ricerca che ha la poesia. La canzone vuol dire mettere insieme in maniera dialettica parole, affinché queste parole possano entrare dentro una musica ed essere ascoltate. Ovviamente ti parlo di musica leggera, e canzone e poesia sono due cose diverse. Deve esserci, però, un tessuto, un’intenzione poetica nella canzone. Vedi De André, vedi Dalla, vedi De Gregori. Poeti non sono, ma sono dei grandissimi e straordinari chansonniers.

Tra i vari reading, c’è anche l’esperienza con Matteo De Simone, membro dei Nadar Solo e autore del libro Denti guasti. Come lo hai conosciuto e com’è stato partecipare a quest’avventura?
Mi ha contattato e mi ha fatto questa proposta. Lessi il suo bel romanzo e decisi di farlo. Fu una bella cosa. Poi, peraltro, stavamo pubblicando Il mondo nuovo e il suo Denti guasti ha un occhio molto attento all’immigrazione e alle circostanze che poi vengono vissute dagli immigrati. E lo trovai molto coerente con quello che stavo facendo.

Ti senti migliorato, o quantomeno cambiato, dopo quest’album?
Se sono migliorato? (Ride, ndr) No, io peggioro. Io peggioro soltanto.

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