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Intervista di James Cook, foto di Andrea Furlan

Letlo Vin ha pubblicato recentemente Songs for Takeda, il suo debut album. Un concept che si ispira al folk americano, al rock’n’roll e al soul. Un disco intimo e lieve, dietro il quale si cela una tragica vicenda. Abbiamo incontrato l’autore prima del concerto di presentazione al circolo Arci Bellezza di Milano e ci ha rivelato il suo percorso umano ed artistico…

Iniziamo dal nome: Letlo Vin è un nickname, preferisci quindi mantenere misteriosa la tua identità?
Il ricorso ad un alter ego nasce anche dal desiderio di avere la piena libertà di esprimermi senza essere  indicato per la mia storia personale. Per darti meglio l’idea diciamo che è un po’ come se avessi creato il personaggio di un film. Questo nome l’ho scelto perché rispetto ad un riferimento anagrafico vero – io mi chiamo Max – ha un significato specifico, è una metafora. Mi è piaciuto il gioco di parole che richiama la lingua inglese “let love in”, ovvero letteralmente “lascia entrare l’amore”. Per caso, poi, sezionando un pochino il suono, mi è venuto in mente che potevo abbinare Vin (che  è un nome e anche un cognome) a Letlo, che rimanda a qualcosa di oscuro, di strano, proveniente magari da un luogo dell’Est. 
C’è pure un secondo riferimento, me lo stavo quasi per dimenticare, ed è Let Love In, il mio album preferito di Nick Cave. Il singolo stesso è meraviglioso, anche se non l’ho mai suonato. Ho tutti i di dischi di Nick Cave, come quelli di Springsteen, Van Morrison, Leonard Cohen, andrei avanti così…

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Vuoi raccontarci un po’ della tua vita prima di diventare Letlo Vin?
Sono originario della provincia, esattamente la mia città è Lodi.
Bazzico all’interno di gruppi musicali da quando avevo tredici anni. A quell’età vieni folgorato dal rock’n’roll e allora che fai? Prendi in mano la chitarra elettrica e ti esibisci a destra e a manca. Ho fatto un sacco di concerti, ho partecipato a tanti gruppi, poi è successa “questa cosa”: una persona che ha suonato con me per dieci anni, con cui condividevo la musica e anche la vita, ha fatto quel che ha fatto… si è suicidato. Quello che è accaduto mi ha completamente cambiato la vita, ha segnato il passaggio fra un’adolescenza tardiva e una brusca entrata nell’età adulta. Mi sono ammutolito per quattro anni, non ho più suonato, né toccato una chitarra elettrica, però in me c’era l’urgenza di scrivere delle cose che uscivano mio malgrado, lo stesso effetto di quando uno va dallo psicanalista. Se scrivi in solitudine ti viene più spontaneo usare la chitarra acustica piuttosto che quella elettrica, questo disco è uscito così. Rispetto alle mie esperienze precedenti sono stato traghettato completamente in un altro mondo. Certo è un’esperienza strana, ma sono contento che sia riuscita così bene e che piaccia. Mi soddisfa particolarmente perché non l’ho studiata, niente è stato fatto a tavolino, della serie “adesso sfrutto la storia, m’invento…” no, zero, questo progetto musicale è nato del tutto spontaneamente…

Tu hai sempre scritto brani con queste sonorità?
Rispetto al genere che facevo prima, quest’esperienza è stata una “rottura”, mi ha dato una nuova consapevolezza. Prima, suonando nei gruppi, si creava tutti insieme, quindi mi adattavo ai gusti musicali degli altri componenti. In questo modo, tutto il mio bel soul – folk degli anni 40-50 se ne andava a “farsi fottere“. Sono veramente poche le persone che condividono i miei gusti. Con Letlo Vin ho voluto fare veramente quello che mi rispecchia al 100%, se piace va bene, altrimenti c’è tantissima altra musica da ascoltare…

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Il disco è dedicato a Takeda, vuoi raccontarci di lui?
Nei paesi ci si chiama molto spesso  per soprannome e per lui il nickname era Takeda. Anche per i  miei due compagni che adesso fanno i milanesi, ma sono sempre lodigiani dentro, è successo così: uno si chiama Boncompagni ma per tutti è “Bronco”; l’altro “Rahim”,anche se in realtà di cognome fa Raimondi. “Lui“ per tutti era Takeda, perché amava tanto la cultura giapponese, dai videogiochi ad artisti del calibro di Miyazaki, che aveva fatto apprezzare anche a me. Se avessi dovuto intitolare: “Songs for…” (e qui per rispetto della privacy ometto il vero nome del mio amico), secondo me si sarebbe persa molto della magia, della curiosità. Invece, utilizzando il nome Takeda, si possono stimolare molte domande.

Per completare questo album ci sono voluti circa circa 4 anni. Ci racconti com’è andata? Da dove nasce l’idea di un concept diviso in più parti, con canzoni che sembrano capitoli di un libro?
Ti dirò anche di più: ci sono voluti quattro anni per comporlo e altri due per registrarlo, quindi in tutto sei. Qualcosa di veramente troppo impegnativo, a un certo punto proprio non ce la facevo più! In realtà, il disco che voi adesso ascoltate è il frutto di una selezione fra una quindicina di pezzi. Il tempo di elaborazione è così lungo, pensi talmente tanto, che alla fine ti accorgi che i singoli brani hanno anche una storia che li accomuna. Quando si scrive un libro, c’è una prima spinta, un’idea portante, poi si riorganizzano le cose. E’ successo così anche a me: per i primi tre anni mi sono solo dedicato a scrivere e l’ultimo a concettualizzare. In definitiva direi che questo è un disco da ascoltare non un singolo alla volta, ma tutto per intero, da assorbire e “subire” (risata generale).

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La sonorità molto intima risponde all’esigenza di come sono nati i pezzi, cioè spontaneamente, o è frutto di una tua scelta precisa?
Essenzialmente è successo questo: avevo delle idee e quando scrivevo lo facevo sempre a casa, per i fatti miei. Ad un certo punto un mio amico mi ha prestato un bel microfono. Mi son messo lì con il mio computerino ed una scheda audio veramente di basso livello. Registravo quando riuscivo ad avere tempo libero, anche di notte. Sono nati così dei provini che al mio amico “Bronco” piacevano tantissimo. Li abbiamo registrati in studio, ma il risultato non aveva lo stesso feeling, quella forza particolare. Poco alla volta Bronco mi ha convinto ad interrompere la realizzazione del disco.  A quel punto, però, non sapevo cosa fare. Per caso (così avvengono gli incontri più belli), ho conosciuto una persona fantastica, Federico Bortoletto, appena tornato da Brooklyn dove aveva vissuto quindici anni facendo il fonico. Lui ha cominciato a lavorare sul nostro materiale cercando di non togliere la spontaneità dei provini ed allo stesso tempo dandogli un po’ di colore. Il risultato è un progetto musicale realizzato con l’urgenza di farlo, tuttavia molto curato nelle sonorità…

Mi sembra di sentire la storia di un disco di un signore americano che  hai nominato prima…(risata)
Stai citando “Nebraska”! So tutto di quel disco, ho fatto lo stesso  percorso in effetti… Mi fa sorridere la cosa perché non avevo quell’intenzione, ma non ce l’aveva nemmeno Springsteen (risata). Anche lui aveva una cassetta registrata che si portava nel giubbotto e la faceva ascoltare  a quelli della band. Loro gli dicevano: ma tu sei fuori, questa la devi pubblicare! Anche per Bruce la magia di qualcosa che nasce spontanea in un preciso momento, è stata impossibile da riprodurre  successivamente in studio…

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Parlando del tuo disco e in generale della tua musica, si sono fatti paragoni molto illustri. Quali sono effettivamente le tue influenze e gli artisti che stimi maggiormente?
A parte i nomi che abbiamo citato prima, ascolto da sempre tantissimo soul. Ci tengo davvero a dirlo, se volete andate a ricercarlo nelle mie sonorità, anche nei cori delle canzoni. Ti posso citare da Sam Cooke, grandissimo anche per i testi, fino ad Aretha Franklin, Otis  Redding, Percy Sledge, Ray Charles, tutti appartenenti alla  scena degli anni ‘60. Ho iniziato ad apprezzarli  fin da ragazzino. E’ andata così: ho comprato una compilation dell’Atlantic, sette volumi, quattordici dischi e mi son fatto tutta un’estate in ascolto…

Perché hai scelto di cantare in inglese?
Ho deciso di scrivere in inglese per due motivi: il primo è che sono praticamente bilingue, a 6 anni ho iniziato a frequentare una scuola inglese in Italia. Il secondo è che il tema era così forte che non ce la facevo a cantarlo in italiano, non riuscivo proprio ad affrontarlo. Scrivere in inglese mi ha permesso di  “mettere una maschera“ al mio dolore, perché comunque è la mia seconda lingua. Anch’io mi chiedo, ora che ho superato e metabolizzato quest’esperienza come hanno fatto ad uscire queste sensazioni così intense, in italiano non sarebbe mai stato possibile!

Ascoltando il disco e leggendo i testi si ha la sensazione che nella scrittura tu metta a nudo i tuoi sentimenti. E’ davvero così?
Si, e ti dirò di più: ho iniziato a portare in giro questo progetto quando finalmente ne ho sentito il distacco. Veramente ora per me sono “semplicemente” canzoni, le vivo insieme ai miei amici ed è fighissimo!

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Cantare in inglese ti ha comunque concesso di usare tutte le sfumature che avresti utilizzato esprimendoti in italiano ?
I miei amici dicono che parlo meglio l’inglese dell’italiano. Probabilmente devo avere un freno psicologico nei confronti della mia lingua madre, legato al concetto del “parlare ed essere ascoltati“. A me piace un sacco l’inglese perché gioca tantissimo sui doppi sensi. L’italiano è una lingua molto meno metaforica, ad un suono corrisponde un’unica parola. In inglese, ne corrispondono come minimo tre. Dato che ho la padronanza del lessico e quindi non rischio di risultare comico, ho deciso di utilizzare l’inglese. E’ indubbio che l’italiano sia la lingua delle sfumature, della ricchezza espressiva, però io non ce l’ho: non sono un grande paroliere, quindi ho risolto la questione così ( risata generale).

Come hai scelto i musicisti che ti accompagnano dal vivo?
Nell’ultimo gruppo c’era Bronco, altri due ragazzi  e Takeda alla voce. Quando lui è morto la band si è sciolta, non abbiamo fatto più niente per anni. Nel momento in cui ho pensato di ripartire con qualcosa, mi è venuto spontaneo chiedere a lui (il Bronco). Per quanto riguarda Rahim, non volevo un semplice batterista ma qualcuno che fosse anche coinvolto emotivamente. Lorenzo conosceva Takeda e soprattutto è un gran musicista, suona (la chitarra elettrica) e canta bene. E’ andata così, un po’ per ’amicizia e un po’ per affinità musicali.

Hai già  in mente cosa farai dopo aver portato in giro questo disco ?
Da sempre scrivo molto, ho già pronte le canzoni del prossimo lavoro. Sarà sempre un concept album ma non posso anticiparti ora i contenuti, c’è un nuovo motivo molto forte che voglio approfondire…

Ringraziamenti a:
Cesare Sinigaglia per la disponibilità
Joshin per l’ispirata partecipazione
Ellebi per il grande aiuto